Aria, vento e cambiamenti

Ci sono cose che realizziamo solo quando cambiano stato, eppure sono sempre state lì sotto i nostri occhi, tra le nostre mani. Con quel cambio di rotta incrinano il nostro camminare e si fanno vedere.
A volte a carezza.
Altre a schiaffo.
Siamo circondati dall’aria ma la percepiamo solo quando diventa vento.
Leggero, quasi impercettibile oppure burrascoso e incontenibile.
Solo in quel momento si fa sentire e ci accorgiamo che c’è altro che si muove con noi.
Ho un rapporto strano con il vento: mi affascina e mi inquieta insieme.
Adoro sentire sulla pelle l’aria che corre e muove le foglie e i fiori, capace di sollevare aquiloni, di far danzare tutto quello che è leggero e aspetta solo una piccola spinta per alzarsi da terra e viaggiare in libertà.
Con quel vento riesci a respirare anche il profumo della peonia, delle rose, dell’erba tagliata di fresco, senza bisogno di andarci vicino col naso. Quei profumi, incantevoli e deliziosi, son sempre stati lì ma quel venticello te li porta in mano, come un dono.
Poi c’è il temporale d’aria, che sposta in un attimo le nuvole e le fa diventare scure cambiando repentinamente la luce sul mondo intorno. Sbatte le persiane e fischia tra le tegole. Gli alberi si piegano e a volte si spezzano. Tutto si ribalta come si potrebbe fare con la tavola alla fine di un pranzo fastidioso: alza di scatto la tovaglia, con noncuranza e rabbia rompendo piatti e bicchieri, buttando a terra gli avanzi di un cibo non gradito.
In un attimo ti salta in faccia tutto quello che c’è sempre stato e che non volevi vedere, tutte le tue paure bambine saltano fuori come dalle scatole a molla di un tempo, quelle con un pupazzo all’interno che doveva divertire e invece a me hanno sempre solo fatto paura.
Eppure anche quel vento rabbioso serve.
A liberare più in fretta il cielo e riportarlo all’azzurro, a far saltar fuori le magagne del mondo intorno e cercarne una cura.
Che spazzi con rabbia o delicatezza il vento trasporta altrove, fa muovere cose e pensieri, sensazioni e petali dei fiori.
Allora, se con certi venti mi chiuderei sotto al letto con le mani sulle orecchie, sto imparando ad apprezzare l’aria in faccia e prima o poi si potrà pensare di aprire le braccia controvento e prendere la mia personalissima direzione.
Sappi che tutte le strade, anche le più sole
hanno un vento che le accompagna

e che il gomitolo, forse
non ha voluto diventar maglione

che preferisco non imparare la rotta
per ricordarmi il mare ( P.M. Giovannone )

di se e vorrei… e nulla più

Se la strada deve essere in salita la vorrei come una scala a chiocciola
per trasformare la fatica in un girotondo.

Se devo avere gli occhi che bruciano,

vorrei fosse per un vento improvviso che scompiglia capelli e pensieri, spostando polvere e terra facendo danzare le foglie e l’immondizia lasciata per strada.

Se mi si devono vedere i denti,

vorrei fosse perché rido.

Se devo tirar fuori le mani dalle tasche,

vorrei fosse per metterle in quelle di altri.

Se devo avere un peso sulla schiena vorrei fosse mio figlio,

quando lo accompagno tra i sogni su per le scale.

Se devo chiudere gli occhi vorrei fosse per sognare.

Se devo ascoltare in silenzio, vorrei solo voci amiche e musica buona.

Se devo muovermi a piccoli passi vorrei fosse su un muretto, per vedere il mondo da un punto nuovo.

Se devo avere a che fare con il mare

Disegno pesci.

 

 

 

Un bicchiere e nulla più…

Immobile, seduto sul ripiano sopra al lavandino

osservo il mondo intorno, fatto di sguardi, piccoli gesti, parole urlate, sussurrate,

a volte solo pensate.

Finita la cena

Sono sempre l’ultimo a lasciare la tavola,

in attesa perenne di labbra assetate.

Di umore pieno tanto quanto richiesto da chi mi prende.

Spesso, vuoto, giaccio a testa in giù, a svuotarmi completamente.

Pronto ad ogni richiamo, rapito da mani avide che svelte prendono da me ciò che serve,

per poi posarmi lì, ad attendere.

A volte osservo occhi colmi d’amore e mani intrecciate.

Altre resto solo, nel silenzio della notte, a vegliare sogni altrui.

Mani bambine mi rapiscono e con una giravolta mi svuotano, sento le loro urla e risate nel caldo dei pomeriggi estivi.

Dita incerte mi tengono stretto nelle notti d’inverno e posso sentire acqua salata che mi tocca i bordi, che si mischia al ristoro caldo che contengo.

Sostengo, con partecipazione, l’umore di chi mi circonda.

Quasi me ne nutro, pronto a restituire quanto concesso.

So contenere la trasparenza più candida e neutrale, trattenere il rosso rubino o il giallo del grano e del sole.

Tengo stretta la dolcezza  e l’amarezza con la stessa forza, dando loro uguale importanza.

Non importa come sono fatto, il mio aspetto.

Importa sempre e solo come vengo percepito

Se mezzo pieno

O mezzo vuoto.

 

la sedia

… resto qua.

In un angolo.

A chiedere se è solo questo il mio ruolo: fare da gradino per arrivare più in alto, sorreggere culi pronti al cibo.

Una maglioncino avvolge il mio schienale, solo per metà. Scivola di lato. Ho spalle troppo strette per sostenerlo.

Panni usati ai miei piedi. Silenzio intorno.

A volte sono scaldata da coperte appena lavate, profumano di lavanda e vaniglia. Ma restano il poco che serve per essere sistemate in altre stanze, più adatte ad una coperta. Luoghi di calore e sogni, di carezze e compagnia.

E io resto qui.

A ricordare l’unica volta che ho fatto da altare ad un amore improvviso, dirompente, semplice e spudorato, dolce e passionale. Tengo stretta la sensazione delle mie gambe che tremano e gioiscono sotto il peso di quell’improvviso uragano, passato per questa stanza a luce spenta. Lo so io cosa è successo. Nessun’altro.

E resto qua, con quel ricordo impresso nel legno dello schienale ad aspettare che ci sia una cena e sperare che sia almeno un millesimo dolce e profumata come quell’istante.

 

Ho letto tempo fa questo racconto di Paolo e in questi giorni sono uscite, di getto queste righe. Altri hanno scritto il loro modo di vedere e vivere quella sedia. Questo è il mio.

piedi a righe e a pois.

C’è stato un tempo in cui i calzini li comprava mia madre, la scelta era dettata dall’ordine e dalla praticità: di cotone per la primavera, caldo cotone per l’autunno/inverno, di spugna per lo sport, calzettoni per le camminate in montagna. In genere erano bianchi o blu, raramente passavano per il nero o il grigio. Ho sempre avuto anche una vasta scelta di calze da casa, fatte ai ferri da mia nonna, con i rimasugli della sua lana quindi in tutte le sfumature di marrone e verde, colori perfetti di una nonnina delle castagne com’era lei.

I piedi si tengono al caldo, non andare in giro con le calze rovinate, questi i pensieri principali. E io tenevo i piedi in scarpe da ginnastica alte, le calze nemmeno si vedevano e poco importava.

Poi ho iniziato a sceglierle.

Mi sbizzarrivo soprattutto con quelle da casa: colorate, morbide, con i gommini sotto, con la mezza suola per non scivolare, ne ho anche comprate con le dita separate, solo perché mi faceva ridere l’idea. Nella realtà non facevano affatto ridere una volta nei piedi e son durate poco.

Poi è partito l’amore: con i piedi calpesto la strada e liberi o chiusi in scarponi non importava ” con piedi allegri vai dove vuoi” mi dicevo. Così ho iniziato a cercarle colorate, coloratissime, difficilmente a tinta unita.

A righe, a pois, con frutta disegnata e animali fantastici.

Ancora oggi ho pochissime calze che possono essere definite “serie”, ci prova ogni tanto mia sorella che tenta di rifornire il mio armadio di qualcosa di portabile in caso di necessità ( quale sia non si sa bene) e mi arrendo ( non sempre) di fronte a quelle da tenere negli scarponi da montagna, non so perché ma quelli difficilmente sono fantasiosi.

Quando iniziano a non reggere più il peso del loro lavoro faccio fatica a buttarle: alcuni son diventati guanti per le mani ( togliendo la parte del piede), ” manicotti” li chiamo io. Altre son diventate pupazzi per mio figlio o i figli di amici. A volte diventano “sacchetti porta cosa vuoi” per Mini, utili quando era più piccolo per uscire con almeno un paio di macchinine o omini del Lego.

Una cosa non riesco a  fare: accoppiarle. E’ una cosa per me difficilissima, non mi piace e le metto alla rinfusa nel cassetto, spesso ne perdo una e non posso dare la colpa SOLO alla lavatrice. Per questo ho iniziato a metterle “come capita”.

Se non sono fatte per stare insieme mica posso buttarne una o aspettare che l’altra torni a casa lasciandole prendere polvere nel cesto della biancheria. Allora la uso lo stesso. Quindi mi ritrovo con un piede a righe e l’altro con pois, uno sulle tinte del verde e l’altro quelle del viola. Cerco di metterle della stessa altezza, per non fare distinzione tra i polpacci ( anche loro, poveretti, non è che possono subire le scelte di fuga altrui).

Se una si perde per strada, l’altra continua a fare i suoi passi e credo sia giusto così.

Anche per questo ho iniziato a prenderle spaiate già dal negozio e sono parecchio soddisfatta: non sempre chi è nato a coppia deve restare lì e non sempre chi è differente non sta bene insieme.

… la adoro…

Di giorni sì, di giorni no e di giorni forse

Ci sono mattine leggere, dall’aria fresca e propositiva.

Il sorriso arriva semplice e semplicemente si vive l’intero tempo di una giornata.

Sono le giornate , non così frequenti ma prepotenti

che fanno alzare la schiena e la testa verso mondi possibili

che fanno muovere i piedi in saltelli bambini.

I giorni sono come dei punti esclamativi: partono dalla base e saltano verso il cielo.

Ci sono pomeriggi frenetici

l’unico pensiero è arrivare a sera,

senza troppi graffi sullo stomaco e le guance asciutte.

Momenti che ad ogni passo le spalle s’incurvano verso la terra e gli occhi si chinano di fronte al peso dell’aria.

I giorni no sono come il punto: fermi, inchiodati.

E poi

Poi ci sono giornate di dubbi, di parole monosillabiche che cascano nel vuoto come il fumo della sigaretta.

Giornate di nebbia e vento che scompiglia capelli e pensieri.

Di chissà, magari, ma?, eh?, se avessi, se fossi….

I giorni forse sono come una linea obliqua sulla quale funambulare con attenzione e fiato trattenuto

a volte in salita, altre in discesa.

Il mio tempo è come un quaderno a quadretti sbiaditi, scarabocchiato in ogni angolo, spiegazzato a volte maltrattato ma sicuramente vissuto.

chi c’è, c’è… chi non c’è, non c’è…

Ci sono io
che resto sempre un po’ incastrata nelle cose
C’è questo caldo che scioglie i pensieri in melma fangosa e appiccicosa
Ci sono io che cammino storta, che tiro su testa e spalle
ma un sassolino nella scarpa mi costringe a passi da pinguino al sole
Ci sono io che lascio le finestre aperte, sempre e comunque
E ci sei tu che una volta entrato hai scombinato la stanza
E ci sono io che ti ho lasciato fare perché volevo spostare quello che c’era e fare spazio ad un cielo nuovo

Dimenticando che il cielo è sempre e solo uno

lo puoi guardare dalla parte che vuoi ma uno solo resta.
Ci sono io che resto ferma quando vorrei correre
E tu che passi…
passi e non ti fermi, come i saluti fatti a cenno di viso.

… una bella merda…

” occhi bassi, quando cammini… dentro ai piedi che tesoro hai…” ( TARM)

… e allora ciao…

Tutti gli addii ho compiuto.
Tante partenze
mi hanno formato fino dall’infanzia.

Ma torno ancora, ricomincio,
nel mio ritorno si libera lo sguardo.

Mi resta solo da colmarlo,
e quella gioia impenitente
d’avere amato cose somiglianti
a quelle assenze che ci fanno agire.

da “Poesie francesi” Rilke

Ci sono saluti quotidiani del “ci vediamo, ci sentiamo poi, domani, nei prossimi giorni”

Ci sono i saluti di quando conosci qualcuno per caso, ad una cena, ad un aperitivo, saluti che suonano come ” è stato un piacere chissà se ci si rivedrà, nel caso non dovremo presentarci di nuovo”.

Ci sono i saluti da mattino e quelli da sera, dell’augurare un buon tempo tra un momento e un altro.

Ci sono i saluti che sanno di appuntamento ad un altro momento, magari in un tempo più lungo ma sai che ci sarà e questo basta.

Ci sono saluti scritti, sussurrati, urlati e definiti.

Ci sono saluti che rimandano ad un altro tempo, quelli che lanciano un filo ad un altro posto, un altra situazione, un altro modo.

E poi ci sono i saluti che raccogli, come fai con l’erba del prato appena tagliata, prendendola a due mani, sentendone il calore e l’umido, sistemandola a coprire le radici degli alberi da frutto o i fiori del giardino.

Non li senti con le orecchie ma risuonano nel silenzio della testa.

Come quando il saluto suona come un addio ma essendo silenzioso lo tieni per te, tra la testa e la gola…

… E ti ritrovi a guardare la luna, ad alzare la mano verso quel cielo notturno, come a non farti vedere da nessuno.

 

 

bislaccherie e disegni

Ho un gomitolo di emozioni.

Un gomitolo senza capo né coda.

Escono come goccioline da una bottiglietta forata.

E si mischiano.

E non si comprendono.

E sono veloci.

Come uno schizzo a matita, un colpo di gomma e volano via con i rimasugli bianchi che restano sul tavolo.

Sono così confuse e difficilmente afferrabili.

Come disegni veloci su carta qualsiasi.

Maledetta stupidera che mi fa prendere poco sul serio…

 

 

Pensieri bislacchi e mischiati come ginevrine sfuse in tasca…

Tengo i miei sogni legati alle caviglie e ai polsi , come palloncini…

Volano alti e quando voglio guardarli tiro la cordicella.

Ho tanti sogni, a volte sembrano troppi… a volte sono così intensi che tolgono il fiato.

A volte mi confondo e li gonfio così tanto che si trasformano in bi-sogni…

Tengo sempre uno spillo, infilato nell’orlo della maglia, per sgonfiarli e farli tornare leggeri.

Cammino su un muretto, da un lato i “se” e dall’altro i “ma”.

In perenne bilico tra le scelte fatte e i desideri non vissuti.

Mi chino, li osservo, a volte li accarezzo.

Poi mi rialzo e torno per la mia strada.

Un sospiro, un saltello e la solita faccia arcobaleno,

perché ogni volta che mi fermo quei ” se” e quei “ma” si sciolgono un po’ sulla pelle delle mani e se per caso mi frego gli occhi, sono guai.

Ogni volta che Mini disobbedisce e fa di testa sua, divento una bestia.

( per quanto possa essere  credibile una bestia di un metro e una caramella).

Ogni volta che Mini disobbedisce e fa di testa sua, in fondo sono molto felice.

Ho messo un barattolo sul comodino.

Un barattolo che riempio di pensieri da torta al limone.

Per tutti gli occhi che vorrei vedere, le parole che vorrei dire loro.

Le mani che non posso stringere, gli abbracci che non ho dato e le parole sciocche che ho usato a mascherar tristezza.

Ho un barattolo sul comodino…

Non riesco più a  chiuderlo.

… e questa principalmente perché…” e perché un c’è una sega nulla da capire…”